L’indegnità a succedere Il nostro ordinamento prevede alcune ipotesi nelle quali un soggetto viene escluso dalla successione. Gli artt. 463 ss. c.c., infatti, parlano di gravi offese alla persona o alla libertà testamentaria dell’ereditando, mentre l’art. 609 nonies c. 1 n. 3 c.p. prevede il caso di condanna emessa per la commissione di alcuni delitti contro la libertà sessuale. Va evidenziato, in primis, che l’indegnità a succedere viene dichiarata dal giudice civile, pur dovendosi utilizzare, nel corso del giudizio, i principi del diritto penale. L’indegnità a succedere viene considerata una sanzione civile. Questo istituto non impedisce la chiamata all’eredità, ma interviene in un momento successivo, sempre su domanda di parte, rimuovendo (“cancellando”) l’acquisto dell’eredità, trovando il proprio principio nel brocardo latino “indignus potest capere sed non potest retinere”. I legittimati a promuovere l’azione sono quanti hanno un interesse patrimoniale, tanto che la giurisprudenza costante (su tutte Cass. N. 5402/2009) ha stabilito che tutti gli interessati alla successione sono litisconsorti necessari nel giudizio di indegnità, dato che la sentenza de qua provocherebbe un mutamento della qualifica ereditaria. L’azione può essere promossa solo dopo la morte del de cuius ed il termine di prescrizione decennale, secondo l’opinione prevalente in dottrina, decorre dall’apertura della successione oppure dalla commissione del fatto, a seconda che la commissione dello stesso sia anteriore o posteriore rispetto all’apertura della successione. La Giurisprudenza (Cass. N. 7266/2006), al contrario, ritiene che il termine di prescrizione decennale ricorra dal momento in cui il legittimato attivo divenga cosciente della possibilità di avviare l’azione giudiziaria in questione. Secondo la dottrina prevalente, in seguito alla sentenza, lo ius delationis passa in automatico ai chiamati che hanno promosso l’azione, in quanto così facendo questi soggetti hanno accettato l’eredità tacitamente. L’indegno, d’altra parte, è ritenuto un possessore in mala fede e, quindi, è obbligato a restituire i frutti pervenuti dopo l’apertura della successione (art. 464 c.c.), ma non quelli percipiendi poiché egli potrebbe non essere a conoscenza delle conseguenze (esclusione dalla successione) del proprio comportamento. Il codice civile, tuttavia, prevede la possibilità che l’indegno possa rivestire la qualifica di erede. L’art. 466 c.c., a tal proposito, che la persona della cui successione si tratta può espressamente abilitare con atto pubblico o con testamento l’indegno. La riabilitazione, che produce effetti solo a partire dalla morte del de cuius, è atto personalissimo e, quindi, non è ammessa la rappresentanza. La riabilitazione non può essere preventiva e, pertanto, non può operare se il fatto è commesso in contemporanea o dopo la morte del de cuius. Essa, inoltre, è atto non recettizio, al pari del testamento, formale ed irrevocabile. L’art. 466 c. 2 c.c., ancora, prevede un’ipotesi diversa dalla riabilitazione laddove prevede che “l’indegno, non espressamente abilitato, se è stato contemplato nel testamento quando il testatore conosceva la causa dell’indegnità, è ammesso a succedere nei limiti della disposizione testamentaria.” Si sono affrontati sul punto due diversi orientamenti che configurano l’istituto ex art. 444 c. 2 c.c. quale riabilitazione parziale e tacita o come altro e diverso istituto giuridico. Sembra preferibile quest’ultima opinione, anche perché la riabilitazione, come detto, è irrevocabile, mentre il testamento può essere sempre revocato. Avv. Mario Astolfi